Anna Requesens, nobil donna siciliana, apparteneva al quel mondo di potenti feudatari che, con il metodo della ‘colonizzazione’ di territori siciliani incolti, riuscì a fondare nuove terre popolate con nuove braccia lavorative, oltrepassando il limite di frontiera che divideva la costa siciliana dalle zone interne impervie e spopolate.
La giovane Anna Requesens e Moncada, figlia di Antonio Requesens e Isabella Moncada è una figura storica che apre un inedito capitolo sulla criminalità presente nel corso del seicento in Sicilia.
Non una baronessa qualunque, ma una nobildonna con discendenza catalana, originaria dalle famiglie Requesens e Moncada, antichi nobili che avevano occupato importanti ruoli nel regno, sia nell’amministrazione sia in politica.
Una baronessa attenta ai suoi possedimenti, abile a gestire i rapporti tra riscossori di tributi e debitori ed a controllare i prestiti ‘usuranti’ imposti ai vassalli costretti ad entrare in una spirale d’indebitamento.
Una donna forte appartenente alla classe dei potenti protetti principalmente dalla Corona.
Sotto il loro illecito servizio, in realtà, vi erano giurati, funzionari feudali, capitani di giustizia e giudici.
Il tribunale di Palermo, colmo di ricorsi compiuti dai vassalli e nella condizione di inaccessibilità, restava un luogo chimerico.
La famiglia di Anna Requesens rappresenta storicamente quella parte di aristocrazia segnata da lotte intestine e da rivalità contro i ceti emergenti.
Il padre Antonio, conte di Buscemi, il 24 novembre del 1582, s’investì della terra e baronia di Ferla, acquistandola da Nicolò Antonio Spatafora, senza mai rispettare l’impegnativo debito contratto, pur avendo garantito il legittimo possesso.
Anna ed i Requesens vengono collocati in quella fase storica seicentesca in cui crisi e pericoli economici avevano cancellato le vecchie reti di alleanze nobiliari.
Soluzione al grave problema fu ridisegnare nuovi rapporti tra potenti in modo da ricreare una nuova fortezza politica ed economica.
La baronessa Requesens, discendente da una famiglia in cui le tensioni dominavano e la prepotenza governava, infatti, l’alto debito per l’acquisto della baronia dagli Spatafora non fu mai saldato, colse l’occasione di sposare Giuseppe Rao per cambiare e rafforzare il suo status sociale.
Giuseppe Rao garantiva, alla sposa- baronessa ed ai Requesens, sicurezza, rispetto sociale ma, principalmente impunità, in quanto figlio di Giovan Francesco Rao, presidente della Gran Corte.
Il suocero le assicurava di poter affermare la prepotenza blasonata, senza nessuna condanna e di poter dirigere il potere con l’intimidazione e la provocazione armata, in cambio della scalata tra i blasonati siciliani .
La baronessa dimostrò questa sua illecita condizione affiancandosi alla banda di Ferla formata da professionisti criminali , valenti nell’imporsi sul territorio circostante e pronti a compiere delitti efferati.
Non mancavano, tra i servigi richiesti da Anna alla banda, la scorta alla sua persona ed ai luoghi da lei frequentati.
La banda di Ferla o dei ferlesi , non formata da briganti ‘alla macchia’ e neppure da ‘bravi’ a servizio di nobilotti locali, si può considerare un retroscena della mafia, infatti è stata definita “impresa del crimine” in cui le diverse attività erano tipiche della criminalità organizzata: abigeato, omicidi su commissione, sequestro di persona con richiesta di denaro.
Altro elemento che accomuna questa banda alla mafia di fine ottocento è l’affiancamento di personaggi potenti del clero, della nobiltà, di governatori di città e uomini di giustizia pronti a mettersi a disposizione dei potenti criminali.
Nel 1782, abolita l’Inquisizione in Sicilia, molti atti d’archivio furono bruciati, secondo costume criminale, per non lasciare traccia e assilli generali che coinvolgevano il rango nobile e civili.
Altre carte, però, furono lasciate perché ritenute irrilevanti.
E’ poco facile, quindi, riscontrare casi simili in uso tra il seicento e settecento, ma possiamo sostenere che questi comportamenti criminali, tramati nel tessuto sociale siciliano, hanno favorito lo sviluppo della mafia all’interno delle istituzioni.
Bisogna giungere a fine ottocento, con le Commissioni speciali, per poter parlare di presenze mafiose nei vari strati sociali sia in piccole sia in grandi comunità siciliane.
Il consolidamento mafioso istituzionale non è stato un processo breve e semplice.
Come il lungo viaggio delle cellule tumorali che si formano lasciando il cancro primario per ‘colonizzare’ un altro tessuto, dando vita alla metastasi, così il ‘sistema mafia’ ha prodotto, nel corso dei secoli, individui qualificati nell’ esser mafioso e nel sentirsi mafioso a tal punto da ammalare mortalmente la società attuale.